Teatro Goldoni, 12 - 04 - 2013, ore 15.50 |
Se la pagina scritta talvolta alimenta l'illusione che, dietro le
righe, esista un autore che ne replichi dal vivo gli estri e le qualità,
con Amelie Nothomb non c'è rischio di disincanto: la senti parlare e ti
rendi conto che lo spiazzamento generato sulla pagina dai suoi
personaggi è l'emanazione diretta del suo sguardo sul mondo, affilato e ironico, fino al cinismo più surreale; e hai l'impressione si sia materializzata
sul palco una sorta di protesi d'inchiostro, dai modi raffinati
e gentili e una verve affabulatoria irresistibile. Fiera oppositrice dello champagne
rosé, di contro a quello tradizionale “emanazione liquida
dell'oro”, tracannato a oltranza dai due ai tre anni, confessa Amélie, durante i banchetti di un padre diplomatico di vaglia, l'autrice di Barbablù (Voland, 2013) alterna aneddoti di vita, punti
di vista e di svista, strappando applausi a scena aperta. Tra le
scrittrici più fotografate al mondo, a specifica domanda ti
aspetteresti una riflessione sulle grandi virtù della camera oscura,
e lei ti spiazza così: “La fotografia è una forma conclamata di
assassinio. Quando vedo una macchina fotografica, ho l'istinto di
fuggire; ma dovendo pur esistere in una società fatta di immagini,
tanto vale ingaggiare chi stravolge meglio i materiali, li stacca da
ogni rapporto col reale. Una fotografia è come la morte; anzi, mi
chiedo come si morisse prima dell'invenzione della fotografia e delle
foto ricordo, forse a quei tempi non moriva nessuno. In fondo la
morte stessa è la fotografia definitiva, che il destino si prepara a
scattare a ciascuno di noi”.
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