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sabato 5 aprile 2014

Abilio Estévez, la nostalgia e le cicatrici della scrittura





















"Sono nato a L'Avana, e L'Avana è una città particolare; un luogo sospeso nell'attesa indefinita che qualcosa prenda forma e finalmente la raggiunga arrivando dal mare, luogo dall'ospitalità potenziale e sempre inespressa; esattamente lì ha origine la nostra condizione di sensibilità umana frustrata, inappagata. Da adolescente avevo un atlante, tracciavo i viaggi che volevo fare e mi sentivo una sorta di Marco Polo; sei nato in un'isola, e pensi che il mondo sia molto più grande e ampio. Uno vuole uscire, avverte che rimanendo lì le proprie radici rimangono sterili, non portano frutti".

"La prima volta che ho toccato suolo all'estero fu quando volai in Europa, e atterrai a Stoccarda. Era uno scalo necessario per raggiungere Ginevra; e ricordo con immensa emozione, alla stazione ferroviaria, i tabelloni con le indicate le possibili partenze per tutti i luoghi del mio immaginario europeo, ora tutti lì, a portata di treno. Era la vera rivoluzione della mia vita".
"Scrivere per me nasce da un'urgenza fondamentale, quella di colmare un vuoto; devo rifare una storia sulla pagina, partendo da qualche disaccordo interno, o disarmonia; chi è felice non scrive, che bisogno ha di farlo? Io cerco di ricostruire a modo mio un mondo che non ho posseduto, e in questo parto da un momento di negazione. Il luogo dove scrivo ora, a Barcellona, non ha viste particolari su paesaggi ispiratori, al contrario il tavolo ha di fronte la superficie di una parete nuda. Io scrivo lì. Scrivo per colmare una distanza, non per celebrare una pienezza".

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